Please, come with me

Spesso vi ho detto di quanto la Rianimazione possa essere paragonata ad un imbuto. Un enorme imbuto in cui convogliano tutte le disgrazie dell’ospedale, i pazienti più critici, i casi umani più disperati, le situazioni cliniche senza via d’uscita che si arenano in quello spazio angusto, senza porte e finestre e, che spesso, proprio lì terminano, in un vicolo cieco che, dopo la strettoia dell’imbuto non sfociano in niente di buono.

La  stessa metafora dell’imbuto può essere utilizzata per il Pronto Soccorso dove, in scala molto più ampia, confluisce ogni sorta di malessere, fisico e psichico, un luogo dove arrivano non solo i pazienti che stanno davvero male e necessitano, appunto, di un pronto e repentino soccorso, ma anche chi sta male da un po’ di tempo e non ha voglia di fare la fila dal medico di base e aspettare la data di prenotazione per una visita specialistica, oppure chi non ha un posto migliore dove andare per farsi ascoltare, per vomitare il proprio disagio psichico, o sociale, la propria solitudine e la conseguente ricerca di ascolto e attenzione.

Il personale del Pronto Soccorso è una sorta di ammortizzatore umano che, oltre a svolgere il proprio lavoro di assistenza, si trova a dover gestire psicosi, solitudini, inadeguatezze e una dose incalcolabile di frustrazione e aggressioni verbali, quando non fisiche, che non hanno nulla a che vedere con il lavoro di personale sanitario d’urgenza.

Ultimamente si legge sempre più spesso di episodi di aggressioni fisiche e verbali ai danni del personale sanitario, ad opera di pazienti, o parenti e, nella stragrande maggioranza dei casi, questi episodi si verificano in DEA, molto più raramente nei reparti di degenza e solo in rari casi in Rianimazione, non so esattamente perché, forse per una sorta di pudore che i reparti ospedalieri incutono, soprattutto la Terapia Intensiva, con quell’ambiente gelido e asettico, isolato e silenzioso, pervaso da una consistente consapevolezza di malattia.

Ma il Pronto Soccorso no, quello è una vera trincea, il primo filtro tra vita sana e malattia, dove tutti possono arrivare e mescolarsi e credere di poter portare il proprio stile di vita e di linguaggio, senza filtri, senza mitigazioni, molto spesso senza rispetto alcuno, soprattutto nei piccoli ospedali, dove non è previsto un presidio stabile delle Forze dell’Ordine e gli operatori sono soli a gestire, non solo le urgenze sanitarie, ma anche tutte le bagarre di contorno.

Se è vero che sono abituata a gestire la comunicazione del lutto, è sicuramente vero che non mi è capitato spesso di gestire un’aggressione, ma, ogni volta che questo succede, mi resta addosso una patina di frustrazione, confusione e rabbia, che faccio fatica a dimenticare e a lasciare nella divisa sporca, che butto nel bidone della biancheria a fine turno.

Come quella volta che sto per raccontarvi.

Una chiamata urgente dal collega del DEA:”Sta arrivando un codice rosso intubato.”

La collega e io ci ritroviamo, con il medico d’urgenza, la cardiologa e tre infermieri, ad accogliere il malato in sala shock.

E’ una situazione grave, gravissima, ma questo non ci impedisce di iniziare, secondo un protocollo internazionale e preciso, le manovre di Rianimazione. Siamo un’equipe consolidata e lavoriamo sodo e con concentrazione.

Il paziente è straniero e, dopo qualche minuto, arriva il parente accompagnato da due giovani italiani sconosciuti che, presenti sul luogo del malore, si sono offerti di accompagnarlo in ospedale, seguendo l’ambulanza.

Questo è il primo tilt della storia, perché, il semplice fatto che tu sia una persona generosa, che offre aiuto e un passaggio, non significa che tu abbia alcuna autorità qui dentro, non sei un parente, non sei un curante, non avresti nemmeno il diritto di entrare nella sala triage, ma ti lasciamo stare vicino al parente, che in questo momento è solo e nessuno di noi può stargli vicino, perché tutto il personale è impegnato a provare a salvare il paziente e tu sei l’unica figura amica a cui può aggrapparsi, in una confidenza improvvisata da un incidente tragico e repentino.

Dopo qualche minuto l’infermiere e io usciamo per comunicare la gravità del quadro clinico al parente, che non solo non parla una parola di italiano, ma parla un inglese scolastico  e solo qualche parola di francese. Inizio, quindi, a parlare un inglese molto semplice, cercando di rendere comprensibili notizie che risultano difficili da assimilare anche nella propria lingua madre: che il cuore si è fermato, che stiamo cercando di fare il possibile per farlo ripartire, ma non sappiamo cosa riusciremo a fare.

Il parente fatica a capire, la disperazione confonde i pensieri e anche le parole, ma dobbiamo rientrare in fretta nella sala shock e lo dobbiamo lasciare ancora qualche minuto in sala triage, con questi sconosciuti che non vogliono andarsene, che credono loro dovere restare per conforto umano, o per coinvolgimento inopportuno, non lo so.

Dopo un’altra manciata di minuti esco nuovamente con lo stesso infermiere, che parla un inglese fluente, magari in due riusciamo a farci capire meglio, per dire che il cuore è ripartito, anche se non in maniera ottimale, che cercheremo di stabilizzarlo per poi portarlo in Rianimazione.

Mentre spieghiamo con la poca calma che si ha in queste situazioni, avviene il secondo tilt. Gli accompagnatori iniziano a gridare che è una vergogna, che pochi minuti fa gli abbiamo detto che era morto, come possiamo dire ora che è vivo? Ma chi vi ha detto che era morto? Voi! No, guardi, noi proprio no. Ah no, non voi, gliel’ha detto una donna, con i ricci, che è passata prima. Prima non è passato proprio nessuno, eravamo tutti in saletta. No, è passata una donna, era vestita come lui e ha detto che era morto.

Le lingue si mescolano e i toni si alzano, io decido di non lasciarmi distrarre e continuo a guardare negli occhi il parente, parlando con semplici frasi, lentamente, ripetendo i semplici concetti che voglio comunicare: è vivo, ma sta ancora molto male.

E no, il mio inglese non è fluente, è a dir poco elementare, perché voglio comunicare due semplici cose e voglio che arrivino forti e chiare e non mi aiuta in questo processo, il fatto che un perfetto sconosciuto mi gridi, a 15 centimetri dall’ orecchio, che in questo ospedale di merda nessuno sa parlare inglese e gestiamo alla cazzo la comunicazione con i parenti, che è uno scandalo, che ci dobbiamo vergognare, che facciamo schifo.

Guarda, ragazzo, se ti scandalizzi per la mia padronanza della lingua inglese, avresti proprio dovuto esserci quella volta che per comunicare con una famiglia di cinesi intossicati, ho utilizzato come mediatore il nipote di 9 anni che frequentava la scuola italiana, nell’attesa che arrivasse la signora del negozio di cineserie di fianco all’ospedale, che si rende disponibile in casi come questo, oppure quella volta che ho parlato con una paziente giapponese utilizzando Google Translate, fino all’arrivo del figlio. Sei talmente concentrato a gridare allo scandalo che non ti sei accorto che siamo in un piccolo ospedale di campagna e i mediatori linguistici sono un lusso che non possiamo permetterci.

Questo, però, è solo un pensiero che formulo fugacemente, perché, in realtà, ho smesso di ascoltare le urla che mi circondano e continuo a guardare negli occhi il parente atterrito, che sembra capire cosa voglio comunicare nel mio inglese frustrato, perché annuisce e non stacca i suoi occhi dai miei.

L’infermiere al mio fianco è paralizzato dalla rabbia, ascolta gli insulti che gli vengono vomitati in faccia, senza muovere un muscolo, sa che non può fare altrimenti e si fa rovesciare addosso, senza opporre resistenza, una valanga di fango da due perfetti sconosciuti, che non dovrebbero nemmeno essere lì, che non hanno motivo di disprezzarci a quel modo, se non per l’effetto paradosso di una scarica di adrenalina, che, a differenza nostra, non sanno gestire, per protagonismo, o per la distorta percezione di ingiustizia subita, come paladini di stocazzo che non hanno nemmeno capito cosa stia succedendo, a chi stia succedendo e come questo sia il teatro meno opportuno per esibizioni inconsulte e irragionevoli.

Forse dovremmo chiamare i Carabinieri, forse dovremmo buttarli fuori, o prenderli a insulti, o a schiaffi, invece continuiamo a restare immobili nei nostri ruoli: l’infermiere a fare da parafulmine e io a parlare con il parente, che è l’unico, nello spazio angusto di questa stanza, ad aver bisogno di aiuto.

Gli prendo la mano e lo faccio alzare dalla sedia:”Please, come with me…”

Per favore, venga come me via da qui, venga nella stanza dove sette persone si stanno curando del suo caro, dove nessuno urla, ma tutti sono concentrati in un unico scopo: la cura, senza nemmeno avere la certezza di riuscire a farcela, ma senza dimenticare il rispetto che la  malattia merita sempre.

Mi segue docilmente in corridoio, mentre alle spalle le urla crescono:”Almeno c’è qualcuno in grado di parlare meglio con questa persona? Almeno sapete cosa dovete fare?”

Non ci giriamo nemmeno, io alzo una mano, scrollando le dita, l’infermiere chiude la porta alle mie spalle e un pensiero riesce a superare il vortice di sentimenti che stanno gravitando nella mia testa.

Nessuno si merita questo.

Un circo di volgare e inutile violenza che nessuno merita: il malato, il parente e tutti noi.

“Chiudi bene la porta.”

“Sì, l’ho chiusa. Paola, chi erano questi?”

“Non lo so, non mi interessa, non sono niente di importante.”

Appoggio una mano sulla spalla del parente per indirizzarlo verso la sala shock.

Please, come with me.