L’ultimo chiuda la porta

Tre mesi fa mi sono licenziata.

Non è un modo di dire, mi sono proprio licenziata, ho scaricato i fogli dal sito dell’ASL, li ho compilati, ho fotocopiato la mia carta d’identità e, dopo uno smonto notte, li ho portati all’ufficio personale.

“Dottoressa, aspetti, il Direttore del personale vorrebbe parlarle.”

Entro nel suo ufficio, lo stesso in cui mi sono seduta il giorno della firma del contratto, sette anni fa. Anche il Direttore del personale è lo stesso.

“E quindi se ne va?”

“Sì, esatto.”

“Posso chiederle perché? Che cosa ha intenzione di fare?”

“Non lo so, ma di sicuro non voglio più lavorare così.”

“Capisco, immagino di non poter fare niente per convincerla.”

“Immagina bene.”

“Buona fortuna dottoressa.”

“Buona fortuna a lei.”

Esco dall’ufficio stordita, per il debito di sonno accumulato nel lavoro notturno e per una strana ubriachezza derivata dal coraggio di aver finalmente fatto quello che meditavo da tempo. Una scelta che dall’esterno può sembrare irragionevole e stupida, una cosa inimmaginabile anche solo 15 anni fa: uno specialista del SSN che, dopo anni di studi e sacrifici, rinuncia al posto a tempo indeterminato in un ospedale pubblico.

Mi fermo nella piazzetta antistante la sede degli uffici, sono in pieno centro storico, è mattino presto e l’aria è gelida, il cielo bianco annuncia l’ennesima nevicata, io chiudo gli occhi e respiro a fondo. Non è solo leggerezza e incoscienza quella che provo, è anche frustrazione, per non essere stata in grado di mantenere quello che sembrava a tutti gli effetti il coronamento di una lunga carriera di studio. E paura, paura di non riuscire a trovare un’alternativa lavorativa che mi faccia guadagnare abbastanza, paura di essere stata avventata e poco lungimirante. Sostanzialmente paura di aver fatto una cazzata colossale.

Resto ancora qualche istante con gli occhi chiusi a respirare aria fredda.

Come ci sono arrivata qui?

Come ci siamo arrivati tutti quanti?

Perché ho appena rinunciato a fare il mestiere più bello del mondo, che ho amato tanto e che, comunque, amo ancora?

Sono giunta a questa decisione dopo settimane, mesi di travaglio. Lavorare in un ospedale pubblico periferico sta diventando, ogni giorno, sempre più simile a un gioco al massacro, una lotta di nervi, uno sport estremo che ti lascia, a fine turno, le ossa rotte e il cervello in panne, per non parlare dell’umore, che si inabissa progressivamente, come un’ancora di piombo, che si schianta sul fondo del mare e lì resta, immobile.

La carenza di personale medico costringe, chi lavora nel SSN, a turni massacranti, pochissimo tempo libero e ore di lavoro straordinarie che, nei rari casi in cui vengono pagate, risultano in una cifra così irrisoria da sembrare insultante. Tutto questo non è altro che l’effetto a lungo termine di scelte politiche scellerate compiute in passato, che oggi si riversano, come una frana, su tutti quanti noi, sanitari e cittadini.

Proviamo a ripercorrere i passaggi che hanno portato a questa deriva, tanto ormai mi sono licenziata e ho un po’ di tempo libero per argomentare.

Le facoltà di Medicina (in Italia sono circa 40) sono con ingresso a numero chiuso dal 1987 per Decreto Ministeriale, elaborato dal ministro Ortensio Zecchino, decreto che divenne legge il 2 agosto del 1999.

Il perché si sia arrivati al numero chiuso ha un’origine spassosissima.

Fino al 1923 a Medicina potevano accedere solo coloro i quali fossero in possesso di Diploma di Liceo Classico, dopo quella data l’accesso fu consentito anche ai diplomati al Liceo Scientifico.

L’11 dicembre del 1969 l’ingresso alla facoltà venne consentito a tutti i possessori di un diploma di maturità e questo determinò, negli anni, un aumento spropositato di numero di medici, rispetto all’effettiva necessità di personale.

Nella seconda metà degli anni ’80, però, l’Unione Europea pose l’accento sulla necessità di regolamentare l’accesso degli studenti alle facoltà di Medicina degli stati membri, per poter garantire uno standard qualitativo della preparazione e limitare un’inutile pletora di specialisti troppi e, a loro dire, poco preparati, che avrebbero saturato il mercato. Da lì il decreto ministeriale e, a cascata, l’adesione di tutte le facoltà nazionali all’ingresso a numero chiuso.

L’adesione cieca alle direttive europee e la mancata analisi delle reali necessità future del nostro paese hanno portato, ad oggi, ad un collasso del sistema sanità.

Benché la storia del numero chiuso sia molto recente, in questi pochi anni, circa 20, la medicina ha subito comunque notevoli cambiamenti, si è evoluta e si è specializzata. Se, ad esempio, parliamo di chirurgia, questa ha subito una sempre crescente settorializzazione per cui, se negli anni ’50 e ’60, ma anche fino agli anni ’80, il chirurgo generale doveva saper fare di tutto un po’, oggi le chirurgie sono estremamente specialistiche, perché le nostre conoscenze sono sempre più raffinate e precise: chirurgia toracica, vascolare, cardiochirurgia, otorinolaringoiatria, maxillo-faciale, urologia, bariatrica, plastica, ecc, ecc.

Quindi, da un lato la medicina si è evoluta e raffinata, dilatandosi in diversi e numerosi rami e, dall’altro, il numero di studenti di medicina si è ridotto drasticamente.

Sembrerebbe un calcolo facile da fare eppure nessuno ha avuto l’acume di pensare che un albero con i rami sempre più numerosi e articolati non potesse sopravvivere con radici sempre più striminzite.

Fatto sta che da qualche anno, e con una prospettiva futura ancora più nera, il numero di medici che operano nel SSN, come assistenza sul territorio, o assistenza specialistica negli ospedali, diminuirà progressivamente e inarrestabilmente, perché i medici attualmente in servizio invecchieranno, andranno in pensione, o, banalmente, moriranno, ma non saranno sostituiti da un numero pari di professionisti, perché questi professionisti non ci sono.

Guardiamo i numeri, che quelli non mentono e non sono suscettibili a interpretazione.

Secondo le stime dei sindacati dei medici nei prossimi 5 anni andranno in pensione circa 45.000 medici, tra medici di base e medici specialisti ospedalieri, tra 10 anni questa cifra sarà di poco superiore agli 80.000.

Benissimo.

Ogni anno vengono banditi circa 1100 borse di studio per la medicina di base e circa 6500 per le scuole di specializzazione. Bandire i posti non significa che questo sia il numero effettivo di medici che porteranno a compimento il loro percorso di studi, perché questi sono i numeri crudi, che non tengono conto di quelli che decideranno di trasferirsi all’estero, di cambiare vita e lavoro, o che si ammaleranno, o moriranno. Quindi, tra 5 anni, per 45000 medici effettivi che andranno in pensione ne entreranno sul mercato 38000, ad essere ottimisti e, tra 10 anni, a fronte di oltre 80000 che ne usciranno, ne entreranno 76000.

L’effetto di questa politica scellerata e, permettetemi, scarsa padronanza della matematica, si ripercuoterà su tutta la società, non solo sui medici, ma soprattutto sui pazienti, così come sta già succedendo, in termini di sovraccarico di lavoro, sovraccarico delle strutture e, inevitabilmente, qualità dei servizi.

Se il personale diminuisce, diminuisce, ad esempio, il numero di ambulatori ospedalieri, quindi aumenta, per logica conseguenza, il numero di pazienti che afferiscono all’ambulatorio e, sinceramente, io ve lo dico con il cuore in mano, quando mi trovo con 30 pazienti da vedere, io, dopo il quindicesimo, rallento il ritmo, perché le facce, le patologie e le domande si sovrappongono in una confusione pericolosissima, per cui ripeto le stesse domande, anche due o tre volte, perché non ricordo più se ho chiesto le allergie, le terapie domiciliari, o gli interventi pregressi. Nella minoranza, nella confusione, nel sovraffollamento, la probabilità d’errore sale esponenzialmente, peccato, però, che il nostro lavoro non sia raccogliere margherite e il trentesimo paziente del mio ambulatorio merita la stessa concentrazione del primo.

La risposta della politica a questa emergenza è stata molto semplice: aumentare il numero di pazienti pro-capite, come è stato fatto ad esempio, in Lombardia, dove il numero massimale di pazienti per ogni medico di base è stato alzato da 1500 a 1800.

1800. Ma vi rendete conto? Come è possibile per un solo medico seguire con scienza e coscienza 1800 pazienti?

E dire che fin dal primo anno di medicina mi hanno ripetuto allo sfinimento che il paziente deve essere al centro di tutti i nostri ragionamenti, eppure negli ultimi anni il paziente è stato spostato con una spallata per fare posto ai bilanci, alle spending review e alla medicina difensiva.

Noi sempre di meno, con turni sempre più lunghi, ore di straordinario che si accumulano, nella certezza che non verranno mai pagate, vita famigliare e sociale che se ne va a ramengo perché se non ci sei mai e quando ci sei sei morto di stanchezza, non è difficile capire che chi ti circonda non è felice, non lo sei nemmeno tu e nemmeno i pazienti che hanno aspettato mezza giornata per una visita fatta con un medico stanco e frustrato.

Eppure nelle ultime elezioni nessun partito ha speso una sola parola per lanciare l’allarme sanitario che il nostro paese si trova ad affrontare, nessuno che abbia proposto una soluzione, o anche solo abbia fatto intendere di conoscere il problema e di avere delle idee per risolverlo.

Ci hanno lasciati soli, noi sanitari e voi pazienti, ad accapigliarci nei DEA e negli ambulatori, sfiniti dalla fatica e dall’attesa, ad aggredirci a vicenda come cani, mentre i responsabili non ci vedono, non ci ascoltano, non sanno nemmeno che esistiamo.

Perché è questo ciò che sta succedendo al Sistema Sanitario Nazionale: sta scomparendo, come un fantasma in film per bambini, ogni giorno se ne cancella un pezzo, si perde un contorno e quando, finalmente, non potranno più ignorare l’urgenza, non sarà rimasto niente della nostra storia gloriosa, della nostra professionalità, della nostra dedizione alla cura, non ci sarà rimasto più nessuno che possa stendere un velo pietoso e chiudere la porta di una corsia vuota, dove un tempo lavorava uno dei migliori sistemi sanitari del mondo.

 

PS: Nel caso ve lo steste chiedendo, dopo due settimane dal licenziamento sono stata richiamata dall’amministrazione, che mi ha offerto il part-time che mi era stato rifiutato, sempre da loro, 3 anni fa. Ho accettato, ho rallentato il ritmo, ma non ho smesso di fare il lavoro che amo.