Dobro

Io non so se esista l’Inferno, non sono esattamente una credente, ma nel caso in cui l’Inferno esista davvero mi auguro che un girone particolarmente sgradevole sia dedicato ai capò, i caporali dei lavoratori stagionali che vengono sfruttati in Italia, non sono lavoratori, sono schiavi.

Chi pensa si tratti di un fenomeno esclusivamente relegato al Sud si sbaglia, perché è radicato anche nel ricco Nord, traino del Paese, fiore all’occhiello dell’economia nazionale, orgoglio agroalimentare dell’Italia nel mondo. Appezzamenti di terra pettinati come salotti su cui lavorano gli schiavi e noi che continuiamo a dirci che la colpa è degli schiavi stessi.

Non so perché, ma sono anche indirizzati nelle varie colture a seconda delle etnie: i bulgari e i rumeni nelle vigne, i cinesi nelle risaie, indiani e cingalesi nelle stalle.

Non conosco i numeri e l’impatto sociale, ma conosco quello che vedo e che curo.

Ieri ho conosciuto lui.

“Ma è arrivato da solo?”

“Eh, Paola, sì, l’ha portato il 118. Ha un addome acuto, devo portarlo in sala.”

“Va bene, parla italiano?”

“No.” Il chirurgo allarga le braccia.

“Inglese?” Scrolla la testa.

“Francese? Tedesco?” Mi guardo intorno.

“Non parla nessuna delle lingue che conosciamo anche se ci mettiamo tutti insieme.” Entra l’internista che l’ha accettato in triage “Ma ho la soluzione. Ho recuperato quel foglio che abbiamo fatto tempo fa per l’anamnesi spicciola in rumeno, macedone e ungherese, è una di queste. Glielo faccio leggere e poi può rispondere facendo sì o no con la testa.”

Ok, siamo salvi, siamo nel far west del mondo civilizzato, ma conosciamo l’arte di arrangiarsi.

L’internista si avvicina con il foglio tradotto in tre lingue e sorride. Il linguaggio dei sorrisi silenziosi, l’ultima frontiera della cura.

Il paziente guarda, riconosce una delle tre lingue, sorride anche lui, ma di vergogna.

E scuote la testa.

Non sa leggere.

Un contraccolpo di incredulità e impotenza mi spara contro il muro, come il rinculo di uno sparo.

Un uomo adulto, nato in Europa, nel 2019 non sa leggere.

Si trova in un paese straniero, lontano da casa, a questo punto dubito abbia la consapevolezza del paese in cui si trovi. Sarà Italia, Francia? Spagna? Non importa, perché non è importante, è un paese che si chiama sopravvivenza, qualche soldo da portare a casa, a una famiglia lontana un giorno di furgone da qui.

Li vedi spesso, nella stagione della vendemmia, questi torpedoni scassati, con le targhe più strane e i conducenti grossi e truci, si fermano all’alba, negli slarghi delle strade, agli imbocchi delle capezzagne, accostano e vomitano gruppi di uomini e donne di diverse età: giovani in cerca di un futuro e meno giovani che il futuro l’hanno già visto passare in mezzo ai filari, le mani rovinate, le schiene curve e la pelle, dopo un’estate sotto il sole, che non è nemmeno più solo abbronzata, è cotta. È un colore terreo, fatto di troppo sole e nessuna protezione, è il colore della malnutrizione e del troppo alcool, del futuro che è passato e non ha portato niente di buono, eppure sono ancora qui, trattati peggio degli animali che curano, perché, questa, è comunque l’alternativa migliore e spesso l’unica.

È il colore della miseria, il colore della schiavitù.

Riprendo il filo dei miei pensieri e torno presente a me stessa e al mio ruolo:”Va bene, non importa, se deve essere operato lo opereremo comunque. Ha gli esami, ha le lastre e l’esame obiettivo è lo stesso per tutti. Portiamolo in sala.”

Si apre la porta della stanza, entra un altro uomo, un italiano parlato con forte accento slavo e dei fogli in mano.

“Sono il suo datore di lavoro, questi sono i suoi documenti, è tutto in regola. Questa è sua moglie.”

Ma tutto in regola cosa, porca miseria, che se l’indirizzo di residenza è davvero il paesino piemontese che c’è scritto qui sopra, mi mangio un cane crudo!

Dai documenti risulta mio coetaneo, sembra mio nonno. La moglie è uno scricciolo di donna che si è consumata persino i denti che ha in bocca, ma sorride comunque, per gentilezza, imbarazzo, smarrimento, non lo so, so solo che mi sale un magone che, se non fossi già pesantemente incazzata, mi metterei a piangere.

Il suo “datore di lavoro” fa da interprete, poche domande di rito, ma importanti. Scopro il paziente per visitarlo, il corpo coperto di tatuaggi maldestri che raccontano di galera e vita grama e sotto questa pelle martoriata di scritte che non sa neppure leggere e simboli da malavita, un corpo denutrito e sfinito.

Finisco in fretta. “Ma oggi è venuto a lavorare in queste condizioni?”

“Sì, certo, stava bene.”

“Non stava bene per niente. Andiamo.”

L’ultima cosa che voglio è ritardare l’intervento per discutere con un probabile capò con tutti i documenti a posto.

Esco dalla stanza affiancando la barella spinta dagli infermieri.

Stringo la sua mano con la mia, non conosco la sua lingua, ma gli sorrido.

“Va tutto bene.”

“Dobro.”

Dobro un cazzo, ma lui sorride.

“Dobro.” Sorrido anch’io.